Ogni stanza di questa casa è legata a un ricordo. Ogni porta ha una storia, ogni oggetto – e la sua collocazione nello spazio – un senso e ogni dettaglio conservato parla della presenza di chi ha abitato questa dimora rurale che, con rispetto, il proprietario continua a chiamare “Casa Piazza”
Nato come ristrutturazione per salvare un edificio del ‘700 in località Valle di Castrignano a Langhirano, in provincia di Parma, dall’incuria dell’abbandono, il progetto di farne un b&b è arrivato solo dopo.
La componente umana
“Partire dalla tradizione non per farne una copia ma per ricucire gli strappi del tempo”: questa la filosofia del progettista (nonché proprietario) Jacopo Ferrari che di questa abitazione sulle colline di Parma ha studiato ogni dettaglio. Un lavoro di recupero lungo e scrupoloso in cui l’aiuto di un falegname e di uno scalpellino hanno avuto un ruolo determinante. “Ci sono mestieri che stanno scomparendo perché giorno dopo giorno perdono la ragione stessa per cui sono nati”, racconta Jacopo.
“Luciano, l’artefice di tutti gli arredi che ho disegnato, era sul punto di cessare la sua attività. Per lui esser falegname voleva dire esser chiamato in una casa e lì fare finestre, persiane, porte, mobili… Adesso quando lo chiamano è per fargli montare le porte acquistate all’Ikea. Dopo che ha lavorato qui l’ho assunto a tempo pieno: la sua precisione e la sua esperienza sono state fondamentali”.
E lo stesso vale per Paolo, che lavora i sassi: recupera le pietre delle case ormai demolite e le assembla per ricostruire i muri. È un’arte antica quanto ormai scomparsa: quando il lavoro è finito si fatica a distinguere la parte nuova dalla vecchia.
È con queste tre figure – un progettista a tre esami dalla laurea in architettura, un falegname che avrebbe voluto fare il liutaio e un giovane scalpellino – che la ristrutturazione ha preso un’anima.
E a pensarci non avrebbe potuto essere diversamente: la componente umana è parte fondamentale di questa ristrutturazione. La vita di chi ha vissuto la casa all’inizio del ‘700 è stata lasciata ‘a vista’. È ancora lì il cappello da lavoro rabberciato che il contadino aveva messo sul telaio della porta per bloccare gli spifferi d’aria. Sul muro di una camera che una volta era il solaio c’è la conta dei sacchi di frumento. Ci sono le corde del salame ancora appese al soffitto, le travi lasciate nere di fuliggine, i tutoli delle pannocchie di mais usate per sigillare i buchi nelle assi di legno.
La composizione degli spazi
In quella che ora è la reception c’era la stalla. Ne rimane memoria nella traccia dello scolo sul pavimento in pietra.
A fianco, su un piano rialzato, una porta colorata a verderame immette nelle prime due stanze per gli ospiti. È una casa con balchio. Il suo elemento fondamentale è la scala esterna coperta che i contadini ‘toglievano’ dalla casa perché prendeva lo spazio di una stanza; veniva sormontata da una copertura perché, già nelle antiche carte, si ricorda che gli scalini gelano e le gambe si rompono.
Altra caratteristica di questa costruzione era il forno all’esterno: veniva usato da tutti e aveva una funzione comunitaria. “E sotto questo c’era lo sportellino per le galline e il maiale, così che d’inverno potessero restare caldi”, precisa Jacopo.
È tutto ancora lì: a sinistra entrando nella terza stanza degli ospiti.
In realtà, più che una stanza, è una vera e propria casa in cui la pietra e il legno di quercia, come nelle due precedenti, hanno la predominanza.
“Abbiamo voluto usare solo i materiali del posto: sono identitari di un luogo geografico”, spiega il proprietario. “E quindi quercia, pietra, e una stuccatura particolare; partendo da una base di calce naturale abbiamo setacciato la graniglia del posto e l’abbiamo inserita nell’impasto. In questo modo è rimasta una componente di terra che farebbe inorridire i muratori, ma che restituisce il colore di queste terre. E questa tecnica è stata usata con alcune differenze in tutta la casa. Una delle mie scommesse personali era conservare tutto quello che si poteva, a costo di mettere in discussione i soliti preconcetti piuttosto che farlo con l’edificio. Mio padre diceva ‘prendere dalla storia per restituire alla storia’ ed è così che intendo io il riattamento di strutture come questa: recuperare per fare in modo che niente vada perso. Da quello che ne esce ricomincia un nuovo dialogo con il posto”.
Un colloquio che ha molto a che vedere con la bellezza: questo b&b così particolare immette da subito l’ospite in uno spazio senza tempo. Eppure il tempo c’è, ed è fatto della storia di chi abitava questa abitazione rurale che Jacopo, con rispetto, continua a chiamare: “casa Piazza”.
Il valore dell’essenziale
Le tre stanze, se pur arredate in modo minimale, quasi monastico, non risultano fredde. Ogni cosa è necessaria: non c’è nulla di superfluo e niente è lasciato al caso. Le cassapanche sono state tenute dov’erano: ai piedi del letto, così com’è rimasta nell’angolo la tipica angoliera delle case rurali, se pure rifatta in chiave contemporanea.
“Ho progettato ogni mobile – a parte questo elemento in acciaio – in linea di continuità con la tradizione e con il linguaggio che viene dai miei studi di architettura. Da ateo quale sono per me il bello ha qualcosa di religioso: se c’è, la bellezza colpisce” racconta Jacopo. “Certo, talvolta poi le cose si fanno anche per contrapposizione: non mi piace la direzione che ha preso il mondo, per questo provo ad andare in senso opposto. Avevo bisogno di salvare la casa e dovevo trovare un modo per poterlo fare e non ho mai creduto a chi mi diceva che ristrutturare fosse costoso. Questo tetto, per esempio, avrebbe potuto esser rifatto nuovo, invece è ancora qui e reggerà altri cento anni. Certo, è difficile persuadere che questa sia l’ottica giusta, ma io credo che la civiltà debba andare in questa direzione. Quando parlo a chi non è del settore porto sempre lo stesso esempio: se tu avessi una Vespa d’epoca a cui manca una ruota la butteresti via o la dipingeresti, compreresti la ruota che manca e la faresti sistemare? E in quale dei due modi ci guadagneresti?”