Un barman mancato che ha girato il mondo e si è lasciato sedurre dal richiamo della Laguna per eccellenza. La sintesi è brutale, ma tutta vera. E vale per Hemingway come per Massimiliano Perversi, da pochi mesi general manager dell’Hilton Molino Stucky Venice. Il manager ha infatti alle spalle una lunga esperienza nei più importanti brand dell’ospitalità mondiale e un sogno coltivato fin da ragazzo, fatto di shaker, ghiaccio e ciliegie al maraschino. Ma il destino, si sa, è spesso agitato e non mescolato, come voleva il buon James Bond per il suo Vodka Martini: e quindi oggi si ritrova a coordinare trecento persone in uno degli hotel più celebri della Serenissima. Un po’ capitano in campo e un po’ mister, come per il suo Milan. Alla ricerca di una semplicità tutt’altro che banale. Come un cappuccino assaporato con calma sfogliando il giornale, alle prime luci del mattino veneziano.
L’ospitalità: vocazione o scelta ponderata, nel suo caso?
La mia è stata pura vocazione. Fin dalle scuole medie, quando mi sono innamorato del mestiere di barman e ho deciso che sarebbe stato il mio lavoro. Da qui la scelta della scuola alberghiera, che ai tempi era davvero tale e prevedeva i tre anni di sala e bar: al mattino si andava in classe e la sera si lavorava nei locali dei docenti. Ho cominciato così, e poi mi sono trovato di fronte al bivio: restare in hotel, nell’ambito sala e bar, o andare all’estero a fare esperienza.
E…
Ho scelto la seconda strada, in Inghilterra. Poi la vera svolta: nel 1988 sono stato chiamato dall’Hilton di Milano, e lì ho fatto il cosiddetto training on the job, inizialmente come minibar attendant. Portavo le bottigliette nelle camere, trascinandomi dietro un carrello pesantissimo…
Poi ho provato tutti i reparti, fino ad approdare al ricevimento. A ventun anni ero già night manager, e da lì ho iniziato a girare: prima in Starhotels e poi in Four Seasons, dove ho ricevuto l’imprinting di formazione manageriale, con il trasferimento negli Usa e il primo incarico direttivo. E ancora: Rocco Forte, Ferragamo, Baglioni… A trentacinque anni la prima direzione, all’Albereta Relais e Chateaux con Gualtiero Marchesi.
Che ricordo ha del maestro?
Lavorare con uno dei giganti della cucina mondiale è stata una esperienza irripetibile. Mi sono goduto Marchesi intorno ai suoi 70 anni, quando era molto carico e non doveva più dimostrare niente a nessuno. Un’enorme opportunità: e lì che è nata la mia passione per il food, che ho poi portato avanti nel tempo. Infine, e siamo al passato prossimo, ho lavorato per tre anni all’Aleph di Roma, per un progetto molto intenso e che mi ha portato a Venezia, a questa splendida struttura.
Un ritorno al brand degli esordi.
Sì. È nato tutto da Hilton, che mi ha dato il la quasi trentacinque anni fa, e ad Hilton sono tornato.
Dopo tutte queste esperienze, che idea si è fatto del lusso?
La mia idea di lusso è molto chiara: è la capacità di interagire con il cliente, di sviluppare un rapporto autentico. Il lusso non sta mai nell’albergo in sé, perché sono in molti ad essere in grado di realizzare strutture fantastiche. La differenza sta nel condividere con il cliente un’idea di ospitalità e di esperienza, creando la giusta atmosfera affinché questo avvenga.
Quali sono i caposaldi della sua filosofia di gestione, e quale discontinuità porterà al Molino?
Per una figura come la mia – e i miei colleghi approveranno – la sfida principale quando si intraprende un nuovo percorso sta nel trasmettere a tutto il team la priorità assoluta della cultura dell’ospitalità. Costruirla e renderla viva per tutti i collaboratori, ciascuno con le sue attitudini e il suo approccio al lavoro. È stato questo, l’obiettivo principale in tutte le strutture che ho diretto.
In questo senso – mi passi la metafora sportiva – si vede come il capitano della squadra che va per primo in pressing o come l’allenatore che motiva gli altri dalla panchina?
Qualche anno fa avrei risposto in maniera diversa, e mi sarei immedesimato nel leader che dà l’esempio e va in tackle, sperando di essere seguito da tutti gli altri. Oggi dico che è necessaria una combinazione delle due cose: bisogna essere leader sul campo, ma anche dietro le quinte, specie quando si gestiscono strutture così grandi.
Quante persone gestisce?
Nel pre-Covid anche più di 300. Adesso andiamo dalle 150 alle 300 persone, anche in base agli eventi. E sono tante, mi creda.
Un detto popolare dice “Roma Caput Mundi, Venetia secundi”. Cosa si porta in Laguna della sua ultima avventura romana all’Aleph?
Porto con me l’esperienza fantastica e dolorosa del periodo della piena pandemia: sono state necessarie spalle larghe, ma mi ha dato modo di riscoprire quanto siano fondamentali i valori interpersonali, con il team e con i clienti. L’esperienza lavorativa e quella di vita vanno sempre di pari passo: e oggi rivedo e ritrovo il frutto dei miei tre anni romani anche a Venezia.
Città accomunate anche dal “bella ma non ci vivrei”.
E non è vero. Sono città cui basta saper prendere le misure. In passato ho sperimentato situazioni molto più impattanti. Ad esempio, vivere Capri quando finiscono le vacanze e tutto chiude, o Marina di Scarlino – nella fantastica Toscana e con un progetto eccezionale – ritrovandosi a fine stagione da soli con i cinghiali. Roma e Venezia sono fantastiche. E poi lo stimolo principale sta sempre nel progetto.
Un aggettivo per descrivere Hilton?
Più che un aggettivo, mi viene in mente una sensazione, mia e di tanti altri che entrano in questa compagnia: è il clima familiare, la profonda attenzione nei confronti di ogni membro del team. E non parlo solo dei supermanager. Il valore dello stare insieme, del lavorare insieme, in una società che – insieme a Marriott – ha il numero più alto di hotel, posti letto e team member nel mondo: sembrerebbe impensabile trovare in una multinazionale valori di unione e prossimità così marcati. Eppure è così. Da diversi anni Hilton è ai vertici delle classifiche dei migliori posti di lavoro nel mondo, e non è davvero un caso.
Che novità ci saranno in hotel nei prossimi mesi?
Il focus sarà certamente sull’offerta di ristorazione, che ci ha premiati molto nel pre-pandemia, sempre tra il tradizionale e l’internazionale. Sul piano strutturale, con la nostra proprietà, il Gruppo Marseglia, abbiamo finito di rivalutare la metà delle nostre 400 camere, con un upgrade completo, e l’obiettivo per il biennio 22-23 è di continuare a intervenire: vorremmo avere almeno 300 camere rimesse a nuovo entro la stagione 2023. E poi il Molino Stucky è un luogo molto grande e con tante attività che andremo a rivedere per migliorare l’esperienza del cliente.
Ha lavorato negli Usa. Abbiamo davvero tanto da imparare dal loro modo di fare ospitalità?
La mia esperienza in loco mi ha confermato un sentore che avevo già: hanno prodotti eccezionali, ma quelli non mancano neanche a noi. Ma non sono migliori di noi. Sono diversi, questo sì. La vera forza degli americani sta nel livello di consistenza e di continuità nel servizio. In Italia invece siamo i numeri uno nel problem solving: in un modo o nell’altro la risolviamo sempre. Negli Usa sono capaci di perdersi in un bicchier d’acqua, perché hanno un fortissimo focus sullo standard, sul quale però non sbagliano mai. Finché non c’è il gradino, vincono loro. Ma il gradino capita sempre. E quindi ci vuole un mix delle due cose.
Quando non è general manager, cosa ama fare?
Mi piace lo sport, sono appassionato di calcio e tifoso del Milan, e alla mia squadra perdono persino di aver scelto di soggiornare in un altro hotel, quando è venuta a giocare a Venezia qualche mese fa. Nel tempo libero faccio cose molto semplici: mi dedico alla famiglia e alle mie due figlie, di undici e nove anni. Mi piace molto correre, per la salute ma anche per svagarmi e pensare, perché correndo arrivano sempre buone idee. E poi ho un rito: il sabato e la domenica mattina amo viziarmi con la Gazzetta dello Sport e un cappuccino al bar, senza disturbi di sorta.
Massimo Cacciari una volta disse che “Venezia è una città incompatibile con il moderno”. Ha ragione il filosofo ed ex sindaco?
Forse Cacciari aveva altri parametri di riferimento. Se parliamo di ospitalità, è una incompatibilità soltanto apparente: Venezia deve certamente offrire ciò che il turista si aspetta da essa. Ma è una città con servizi alberghieri assolutamente al passo con i tempi. La struttura della città non permette una big picture come Milano, va da sé, ma i servizi ci sono e gli hotel stanno sviluppando sempre più una piena comodità digital del cliente. Ma per fortuna è hardware che resta nascosto. Come, per altri versi, capita a chi va per la prima volta a Formentera e si riempie gli occhi di quest’isola selvaggia, allo stato naturale. E che invece è una destinazione organizzatissima, che nasconde bene la sua intelaiatura di servizi all’avanguardia. Anche Venezia deve essere così.
Da ragazzino voleva creare cocktail per mestiere. Qual è il suo drink preferito?
Suonerà incredibile per un barman mancato, ma adoro il Virgin Mary. Ovvero, semplicissimo succo di pomodoro condito, completamente analcolico. Forse è proprio quando si è assaggiato tutto, che si torna alle origini. Anche perché offrire la semplicità è cosa niente affatto semplice. Al bar come in cucina. E come in hotel.