Giuseppe Pezzano è il fondatore del brand The Art Inn, che al momento conta due strutture, una a Lisbona, l’altra a Seattle. Classe 1974, calabrese d’origine, Pezzano (nella foto con lo staff di Lisbona) si è avvicinato al mondo dell’imprenditoria durante gli studi universitari a Firenze, quando ha avuto l’idea di aprire un internet point con noleggio di cellulari per i numerosi studenti americani residenti in città. Da lì, ha via via velocemente sviluppato una serie di servizi turistici e di ospitalità finché, nel 2003, si è stabilito negli Stati Uniti per meglio seguire le sue varie attività, che oggi spaziano dall’immobiliare alla tecnologia per l’hotellerie fino allo sport e alla filantropia. “Mi piace costruire”, dice il vulcanico imprenditore.
Come e quando nasce il brand The Art Inn?
Nel 2005 ho fatto un investimento immobiliare nel cuore di Lisbona, con l’idea di ricavarne abitazioni per studenti. Per alcuni anni, però, non sono riuscito a concretizzare il progetto. Nel frattempo, durante i miei viaggi notavo diversi cambiamenti nel mondo dell’hotellerie. Io stesso mi sono stancato di soggiornare in grandi hotel di catena, tutti uguali: già vivi fuori casa gran parte dell’anno, hai bisogno di fare esperienze diverse.
Ho cominciato così a cercare piccoli boutique hotel, unici, divertenti, dov’è possibile scambiare due parole. E così, invece della residenza per studenti, ho deciso di aprire il primo Art Inn a Lisbona, un piccolo hotel di design le cui stanze sono decorate da un’artista che racconta la storia e le atmosfere della città. Ne ho poi aperto uno a Firenze, che purtroppo ho dovuto cedere. Infine, ne ho aperto uno a Seattle.
Qual è il format?
Chi viene nei miei hotel fa un’esperienza unica, respira energia e positività. I servizi sono quelli di un 4 stelle, ma tutto è automatizzato grazie alla tecnologia, dal check-in online alla mobile key (si accede alla camera con il proprio smartphone, ndr), dalla virtual reception ai pagamenti online, si può soggiornare senza interagire con lo staff. Questo modello di business mi ha permesso di rimanere aperto durante il lockdown, grazie all’assenza di contatti e ai ridotti costi di personale, che è tutto in outsourcing.
Ma se non ci sono contatti, che ne è dello human touch tipico dei boutique hotel?
Bella domanda. Nell’hotel di Lisbona, il contatto umano si può avere nel rooftop bar. Per l’hotel di Seattle ho in mente un progetto molto interessante, una sorta di Little Italy, una vetrina delle migliori attività di italiani in città, con bar caffè, lavanderia e, sul tetto, una piazzola di atterraggio per il servizio Uber Elevate. Comunque, a Seattle molti clienti preferiscono non incontrare nessuno e ci scelgono proprio per questo.
Quali sono i progetti per il marchio?
La mia idea è quella di sviluppare una rete di piccole unità in franchising per coprire tutte le principali città del Portogallo e degli Stati Uniti. Ho già disegnato la tecnologia necessaria. Con i bassi costi di gestione del format, basta un’occupazione minima per cominciare a guadagnare. Perché questi due paesi? Perché vi si lavora bene ed è possibile sviluppare idee imprenditoriali. Il Portogallo è un paese che mi ha dato tanto, pieno di giovani in gamba.
E l’Italia?
Amo l’Italia, spero che questa crisi cambi qualcosa dal punto di vista strutturale. Il Portogallo, per esempio, nel 2009 era nella stessa posizione della Grecia, ma a differenza della Grecia ha fatto profonde riforme strutturali, ha operato una svolta a livello politico e organizzativo, ha cambiato le proprie leggi e ha favorito l’imprenditorialità. Consiglio all’Italia di guardare all’esempio del Portogallo. In Italia ci sono brand, asset e competenze eccezionali, in giro per il mondo ci sono imprenditori disposti a investire, ma occorre facilitarli. Altrimenti il rischio è che arrivino solo grandi gruppi, che dettano le proprie leggi.
Quest’ultimo periodo ha messo a nudo diversi punti critici del modello di turismo globale. Secondo lei, chi soffrirà di più e chi invece ne uscirà rafforzato?
Per superare questo periodo c’è bisogno di flessibilità. Per essere flessibile, però, bisogna essere preparati, aver studiato, conoscere i processi e la tecnologia, avere struttura e leadership. Credo che i grandi gruppi avranno più difficoltà. I piccoli marchi se la caveranno meglio, soprattutto quelli che usano la tecnologia per tenere sotto controllo i servizi utilizzando poco personale. Era una tendenza già in atto prima dell’arrivo del Covid-19.
Quali lezioni trarre dal momento attuale?
Questa crisi, come tutte le crisi, prima o poi finirà. Sappiamo anche che dopo ogni crisi c’è una rinascita. Per non essere lasciati indietro, però, occorre avere alle spalle un paese con la giusta struttura. Per questo, non sono preoccupato per il Portogallo o gli Stati Uniti, perché so di poter contare su una struttura paese, ma sono preoccupato per l’Italia. Che dovrebbe capiere che dopo una botta come questa occorre cambiare e fare le riforme strutturali che l’Europa chiede. In Italia le capacità ci sono, bisogna cambiare la mentalità.
Sulla spinta dell’emergenza gli hotel hanno dovuto mettere in atto misure straordinarie. Che cosa di tutto questo rimarrà?
Rimarrà la modalità contactless, ci sarà più integrazione con sistemi virtuali. Ci saranno nuove voci di ricavo via via che l’hotel andrà a integrare nella propria offerta servizi in partnership con esterni. Penso, per esempio, alle commissioni da parte dei ristoranti indipendenti, che in futuro saranno più strutturate.
Qual è la priorità oggi per il cliente?
La garanzia che tutto sia pulito e sicuro. La tranquillità di sapere che la stanza in cui dormo è sanificata come una sala operatoria. L’affidabilità del marchio. Il trovarsi in luoghi piccoli e non affollati.