Alice Brozzoni ha 27 anni e tanto da dire. Perché è un’artista, prima ancora che la mixologist – o per meglio dire la bartender – dell’Hotel Indigo Venice – Sant’Elena. E come tutti gli artisti veri, questa giovane bergamasca l’urgenza di esprimersi te la fa arrivare addosso fin dai convenevoli. E lei, che ha studiato arte senza mai pensare di metterla da parte, dopo un lungo giro ha finalmente trovato la sua tavolozza dentro a un bicchiere e il suo atelier dietro a un bancone, a sperimentare contrasti e accostamenti in cocktail che poi non berrà mai. Forse perché sa che, più che creare capolavori, bisogna essere capolavori. Anche mettendo sé stessi sul fondo di un tumbler o di un balloon.
La sua è la storia di una “barwoman” laureata in arte.
Sì, al momento di scegliere l’Università non avevo le idee chiare su cosa volessi per il mio futuro, soprattutto perché non sopportavo l’idea di limitare le mie possibilità con scelte che poi me ne avrebbero precluse altre. Ho quindi deciso di seguire la mia più grande passione, quella per l’arte, lasciando Bergamo per studiare a Ca’ Foscari. Non che siano mancati i dubbi e le crisi, in corso d’opera. Ancor più quando – durante la laurea magistrale – mi sono resa conto che dell’arte volevo sviluppare non tanto l’aspetto storiografico, ma quello della produzione artistica.
Meno teoria e più pratica.
Ho cominciato a esperire le diverse modalità di espressione, a partire dalle arti visive, che conoscevo meglio: pittura, disegno, scultura… Ho anche avuto dei periodi di scrittura intensa, in prosa e in versi. Ma non riuscivo a trovare un medium che sentissi veramente mio. Finché non mi è capitato di iniziare a lavorare come cameriera in un locale non lontano da casa. Da lì mi si è spalancato davanti un mondo, quello della ristorazione, che avevo sempre coltivato in parallelo, fin da quando al liceo preparavo dolci per la mia famiglia invece di uscire con gli amici. Ma era una passione che non avevo mai sviluppato fino in fondo, anche per il mio rapporto abbastanza conflittuale con il cibo, pur considerandola sempre come una forma d’arte a tutto tondo.
Dalla cucina al bar il passo è breve.
Sì, ho preso contatto con quel mondo, che non avevo mai considerato, in quanto astemia. Ho iniziato a percepirlo come una sintesi estrema di tutto ciò che è la cucina, un universo che non punta tanto sulle consistenze quanto sull’estrarre il sapore nella sua purezza per poi giocarci in modo astratto, quasi idealizzato. Il bar era il medium che stavo cercando da tanto tempo: dietro al bancone avrei potuto realizzare il sogno di esprimere qualcosa.
L’arte in un bicchiere. Qual è il suo approccio?
Amo sperimentare e creare esperienze immersive – come nell’arte contemporanea – che coinvolgano tutti i sensi, come nessuna arte visiva riesce a fare. Non ho ancora una grandissima esperienza alle spalle e quindi porto avanti lo studio e gli esperimenti anche al di là delle mie ore di lavoro, prima nel locale in cui ho iniziato e poi qui, all’Hotel Indigo Venice – Sant’Elena, da meno di un anno. Trovo importante valorizzare i prodotti locali e sostenibili, perché la creatività vada sempre a braccetto con il rispetto per l’ambiente. Gli scarti sono tutt’altro che tali, ad esempio negli agrumi. Io ho sempre odiato lo spreco alimentare, e nella ristorazione ce n’è veramente tanto: non è giusto, per motivi etici ma anche meramente economici. Anche perché uno scarto ben utilizzato è capace di raccontare una storia.
Una mixologist che non beve. È quasi metaletterario.
Preferisco definirmi bartender, è meno pretenzioso. Io non bevo ma assaggio tutto, in dosi molto limitate. Devo conoscere il prodotto che propongo, anche se poi nel mio tempo libero non sono una persona da drink: mi piace mantenere il controllo e percepire tutto quello che mi accade attorno. Più che bere, amo vedere la soddisfazione di chi assaggia qualcosa che ho creato io.
Trova differenze tra gli avventori di un locale e quelli dell’hotel?
Il nostro è un albergo quattro stelle un pochino fuori dal centro con una clientela abbastanza varia, non particolarmente giovane e non sempre aperta alla sperimentazione. Ma ci si può lavorare, stimolandola: sta a noi incuriosirla, comprenderla e offrirle ciò che desidera, trasmettendo anche qualcosa di nostro, nei grandi classici come nelle novità e negli abbinamenti insoliti. E poi siamo aperti anche alla clientela esterna.
Se ne esce, dalla richiesta di spritz?
Tra virgolette, quello dello spritz è un problema, così come il vino. Chi arriva dall’estero ha un’idea molto precisa di cosa vuole provare, e di conseguenza lavoriamo tanto in questo senso, anche se abbiamo molto altro da offrire. Ci stiamo lavorando, anche con la nuova lista dei cocktail e con il marketing.
Qual è il suo cocktail più personale, al quale darebbe il suo nome?
Non darei mai il mio nome a un cocktail: il bartender non deve essere la star, ma lavorare nell’ombra. Nella nuova cocktail list che abbiamo preparato in hotel – incentrata sui quartieri di Venezia – trovo molto personale quello che abbiamo dedicato a Dorsoduro. È estremamente semplice, classico e valorizza appieno il territorio, offrendo un’esperienza complessa e particolare. Dorsoduro è l’art district di Venezia – con l’università, i giovani “fighetti”, gli atelier – e così ho voluto proporre un Martini ma con quel tocco in più, quel je ne sais quoi. Alla base fatta con Gin dei Sospiri – veneziano e ricco di botanica della laguna, estremamente profumato, con sentori anche minerali – ho abbinato un vermouth fatto in casa a base prosecco. Il tutto rifinito con una sospensione di olio alla menta in gocce, che dà quel tocco di freschezza e che rappresenta la gioventù del sestiere.